Intervista con Claudio Benvenuti

Il Ticino dei rianimatori. A vent’anni dalla sua nascita, la Fondazione Ticino Cuore si conferma un esempio virtuoso di rete territoriale per il soccorso in caso di arresto cardiaco. 

Dalle iniziali difficoltà e resistenze all’entusiasmo condiviso tra istituzioni, soccorritori e cittadini, il progetto ha rivoluzionato la cultura del primo intervento in Ticino.

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Oggi nel Canton Ticino si contano oltre 170.000 persone formate alle tecniche di rianimazione e defibrillazione precoce, quasi 7.000 First Responder e più di 1.700 defibrillatori. I pazienti colpiti da arresto cardiaco hanno più del doppio delle probabilità di sopravvivere rispetto alla media europea. Abbiamo incontrato Claudio Benvenuti, direttore storico della Fondazione Ticino Cuore.

Vent’anni fa nasceva la Fondazione Ticino Cuore. Se chiude gli occhi e torna indietro a quei primi momenti, cosa vede? Le difficoltà? L’entusiasmo?

Vedo un grande entusiasmo. Ricordo bene quel periodo: era animato da una forte volontà di trovare soluzioni innovative per migliorare la presa a carico delle persone colpite da arresto cardiaco. Si respirava una voglia di cambiamento, di rompere gli schemi tradizionali per introdurre nuove strategie. Ma la cosa più bella era che questa motivazione non era isolata: era condivisa da tutte le istituzioni coinvolte, dal Cardiocentro alla Federazione delle ambulanze con i vari servizi del Cantone, fino all’Ente Ospedaliero Cantonale. C’era una sorta di alleanza spontanea, una convergenza di intenti che ha fatto la differenza. In quei primi anni siamo anche riusciti a sensibilizzare e coinvolgere quelli che poi sarebbero diventati i partner fondamentali della rete dei First Responder: la polizia, i pompieri, le guardie di confine. Oggi è facile parlare di soccorso precoce, di defibrillatori nei luoghi pubblici, ma vent’anni fa non era affatto scontato. Le nostre proposte erano nuove, a tratti quasi visionarie, e come tutte le novità incontravano scetticismo, qualche resistenza. Anche tra i soccorritori professionisti c’era chi vedeva la rianimazione come una sua competenza esclusiva. Ma poi, con il tempo, i risultati hanno parlato da soli. Si è visto che quando tutti intervengono, anche i cittadini, le possibilità di sopravvivenza aumentano. E da lì il sistema ha preso forza, è diventato quello che è oggi.

C’è stato un momento preciso in cui ha capito che la cosa avrebbe davvero potuto funzionare?

Sì, lo ricordo bene. È stato quando la Polizia Cantonale ha deciso di aderire al progetto. Sono stati i primi a farlo, ed è stato un passaggio cruciale. La decisione dell’allora comandante, Romano Piazzini, ha avuto un effetto domino: dopo di loro sono arrivati i corpi di polizia comunali, i pompieri, le guardie di confine. Se la Polizia Cantonale avesse esitato, o avesse dato un sostegno solo parziale, probabilmente oggi non saremmo qui a raccontare questo percorso. In altri cantoni, ancora oggi, una delle difficoltà principali è proprio ottenere la collaborazione dei corpi di polizia. La loro adesione è stata un segnale forte, che ha dato legittimità e forza all’intero progetto.

Sarebbe stato possibile costruire comunque una rete, anche solo con i cittadini comuni?

Forse sì. Oggi la nostra rete conta oltre 6.800 First Responder e la maggior parte sono cittadini. Quindi sì, in teoria una rete “laica” si poteva creare. Ma non avrebbe avuto la stessa efficacia. Fin dall’inizio, avevamo individuato come cruciale il ruolo degli enti di primo intervento, per una questione di rapidità e capillarità. La polizia, i pompieri sono presenti sul territorio 24 ore su 24, hanno veicoli prioritari e tempi di intervento brevissimi. In zone discoste, i pompieri di montagna riescono a intervenire in pochi minuti, perché sono già lì, sul posto. Ed è proprio questo il punto: il tempo. Il vuoto che si crea tra l’arresto cardiaco e l’arrivo dell’ambulanza va colmato il più rapidamente possibile. E quel vuoto, lo riempiono le persone che si trovano già sul luogo dell’evento.

Oggi i vostri numeri raccontano molto: oltre 170.000 persone formate, più di 1.700 defibrillatori, una rete di quasi 7.000 First Responder. C’è un dato che secondo lei rappresenta più di tutti il successo del progetto?

Probabilmente il numero delle persone formate: quei 170.000 cittadini che hanno investito tempo e denaro per imparare a salvare una vita e tanti di loro si sono messi a disposizione come First Responder. Tutto si basa sulla loro volontà ad intervenire in caso di allarme. Nessuno li costringe, al di là di quanto previsto dall’obbligo generale di soccorso. E l’elemento chiave è proprio questo: la cultura della rianimazione, la sensibilizzazione, l’educazione. È un ambito in cui possiamo ancora crescere molto. Ogni anno formiamo circa 3.000 studenti nelle scuole medie del Cantone. Questo significa che ogni anno ci sono 3.000 giovani potenzialmente in grado di salvare una vita. L’impatto culturale di aver fatto almeno una volta nella vita un corso di rianimazione è enorme. Per quanto riguarda i defibrillatori, certo, possiamo e dobbiamo aumentare la presenza sul territorio. Ma prima di tutto servono persone capaci di usarli. Non basta il dispositivo, ci vuole la competenza.

Quando c’è un arresto cardiaco, un defibrillatore arriva sempre? E quanto tempo dopo?

Con la rete attuale, in quasi tutti gli allarmi c’è un defibrillatore che arriva sul posto. Il tempo mediano di intervento di un First Responder è di 3 minuti e mezzo, un tempo straordinario che fa la differenza tra la vita e la morte. Ovviamente, molto dipende dal tipo di arresto cardiaco. Ci sono diverse situazioni cliniche. Ma in ogni caso, la priorità assoluta è iniziare subito il massaggio cardiaco, che serve a mantenere attiva la circolazione e ossigenare gli organi vitali, soprattutto il cervello. Quando c’è una fibrillazione ventricolare, l’uso precoce del defibrillatore aumenta in modo significativo le possibilità di sopravvivenza.

Torniamo ai giovani: com’è oggi la situazione nelle scuole medie con i corsi di BLS-DAE?

Dopo i primi cinque anni di finanziamento da parte del Cantone, c’è stato uno stop. Ma oggi siamo tornati a coprire circa l’80% degli istituti scolastici, nell’ultimo anno delle scuole medie. Sono ragazzi di 14-15 anni. Ogni anno ne formiamo circa 3.000. Il corso è sostenuto dalla Fondazione Ticino Cuore, con un piccolo contributo simbolico da parte degli studenti. Abbiamo anche il prezioso supporto economico dell’Ente Ospedaliero Cantonale, che ha scelto di investire in questa formazione. È stato un gesto importante, che dimostra quanto si creda nel valore educativo di questo percorso. Ogni anno, grazie anche alla campagna di raccolta fondi, possiamo garantire che questa attività continui. È un investimento culturale e sociale prima che sanitario.

Avrebbe senso iniziare ancora prima, con i bambini delle scuole elementari?

Le linee guida dicono che si può iniziare già dai 12 anni. Ma la sensibilizzazione può cominciare anche prima. Con i più piccoli non si parla tanto di tecnica, quanto di consapevolezza. Non hanno ancora la forza fisica per un massaggio cardiaco efficace, ma possono già imparare a riconoscere una situazione di emergenza, a chiamare i soccorsi, a capire che possono fare la differenza. Noi ci concentriamo sull’ultimo anno delle scuole medie perché lì troviamo ragazzi pronti, sia fisicamente sia mentalmente. E abbiamo già avuto diversi casi di giovani che sono riusciti a intervenire in situazioni reali, salvando un genitore o un amico.

Ricorda qualche storia in particolare?

Ne abbiamo raccolte molte, soprattutto durante le campagne di raccolta fondi. C’è un ragazzo che ha salvato la mamma, un altro che ha rianimato il papà. L’ultimo caso è avvenuto a Biasca, solo lo scorso anno. Sono storie forti, emozionanti. E ci ricordano che senza formazione, senza educazione, tutto questo non sarebbe possibile. È la dimostrazione concreta che insegnare a rianimare salva davvero delle vite.

Tra gli obiettivi futuri c’è anche quello di ridurre i tempi di attivazione della Centrale d’allarme 144. Come?

Le nuove linee guida, in uscita a fine anno, sottolineano l’importanza di chiamare il 144 il prima possibile. È il primo gesto, quello che attiva tutta la catena del soccorso. Oggi l’operatore della centrale deve porre diverse domande per inquadrare bene la situazione. Ma ci sono margini di miglioramento, e qui entra in gioco l’intelligenza artificiale. In futuro, sarà possibile usare algoritmi per identificare parole chiave e attivare già automaticamente alcune funzioni, guadagnando anche solo un minuto. Un minuto, in questi casi, può valere il 10% in più di sopravvivenza. Esistono già sistemi in grado di rilevare la respirazione agonica. È un supporto enorme per l’operatore. L’intelligenza artificiale non sostituirà l’uomo, ma lo affiancherà per rendere tutto più veloce ed efficace.

Diventare direttore di Ticino Cuore l’ha cambiata?

Certo. Sono cresciuto professionalmente nel mondo del soccorso sanitario e l’arresto cardiaco è sempre stato un tema centrale nella mia vita. Ma lavorare in Ticino Cuore mi ha permesso di vedere le cose da un’altra prospettiva. Non solo la cura, ma anche tutto ciò che sta intorno: la formazione, la cultura, la prevenzione, gli aspetti politici, quelli finanziari, la comunicazione, ecc…. È stato un grande privilegio. E i risultati ottenuti, il fatto che il nostro modello sia diventato un riferimento anche fuori dai confini cantonali, sono motivi di grande soddisfazione. È stato, ed è, un lavoro collettivo. Nulla sarebbe stato possibile senza il sostegno del Consiglio di Fondazione, del Cardiocentro, dell’Ente Ospedaliero, dei servizi ambulanza e della loro federazione e di tutti gli attori coinvolti nella presa a carico del paziente.

“Chi salva una vita cambia per sempre”. Ma anche chi non riesce.

Questo è un aspetto delicato, spesso poco raccontato. L’arresto cardiaco ha un impatto emotivo fortissimo su chi assiste. Che sia un parente, un passante, un soccorritore laico. Quando il paziente non ce la fa, il senso di colpa può essere devastante. Ci si chiede: ho fatto tutto il possibile? Ho sbagliato qualcosa? Ancora peggio è non aver fatto nulla. Chi resta a guardare senza intervenire si porta dietro un peso enorme. Per questo abbiamo creato un servizio di supporto psicologico, un accompagnamento umano per aiutare chi ha vissuto questi eventi. Non possiamo chiedere alle persone di formarsi, di intervenire e poi lasciarle sole ad affrontare l’impatto emotivo. Anche questo è parte del nostro impegno.

Viviamo in una società individualista, distratta. Cosa spinge le persone a formarsi per salvare sconosciuti?

Credo che alla base ci sia una forma di solidarietà autentica. Il fatto che così tante persone si iscrivano alla rete, rispondano agli allarmi, intervengano, dimostra che il senso civico esiste ancora. Quando una persona è in arresto cardiaco, sta morendo. E chi è presente, se sa cosa fare, può salvarla. Non è paragonabile a nessuna altra esperienza. E poi c’è l’educazione. Dire a un ragazzo: “La vita di una persona, magari un tuo caro, può dipendere da te” cambia il modo in cui si guarda al mondo. È un passaggio culturale fondamentale.

C’è stato un giorno in cui ha pensato di mollare?

No, sinceramente no. Ho incontrato delle difficoltà, certo. Una delle più grosse è stata quando il Cantone ha deciso di interrompere il finanziamento ai corsi per le scuole medie. È stato un momento molto critico, perché rischiava di minare tutto il lavoro di sensibilizzazione che avevamo costruito. Ma poi, grazie al sostegno delle direzioni scolastiche, siamo riusciti a continuare. Non abbiamo mai perso la fiducia.

E se potesse scrivere il finale perfetto per la storia di Ticino Cuore?

Direi che per Ticino Cuore mi auspico che la storia non abbia una fine ma che si consolidi una cultura aziendale che metta al centro delle sue attenzioni il bene delle persone colpite da arresto cardiaco. La Fondazione esiste perché è convinta di poter contribuire a salvare delle vite, il resto è importante ma secondario. Sicuramente l’evoluzione tecnologica e l’avvento dell’Intelligenza artificiale genereranno grandi cambiamenti: i dispositivi stanno diventando sempre più piccoli, più intuitivi, più accessibili. smartwatch e sensori in grado di allertare i soccorsi in tempo reale sono già una realtà. Ma soprattutto, vorrei vedere una popolazione consapevole, educata, informata, pronta ad aiutare il prossimo. Questo è il cuore vero del nostro progetto. Ed è ciò che, in fondo, fa davvero la differenza.

 


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